Giuseppe Tanferri

Memorie e testimonianze

tratto da “Lotta di Liberazione nella bassa modenese

di F.Canova O.Gelmini A.Mattioli” pag.314-321

 

Nelle mani del nemico

La mattina del 21 marzo del 1945 mi trovavo a casa da mio fratello Amedeo nel fondo « Possidonia » in località Chiaviche di S.Giovanni. Lì avevo trascorso la notte, poiché da 11 mesi non dormivo più a casa mia.

Mentre ero ancora a letto mi avvertono che la zona è tutta circondata da tedeschi, fascisti, mongoli, ecc. Era la continuazione del rastrellamento in corso da alcuni giorni è che era iniziato nel Reggiano. Non seppi cosa fare e dove scappare, dato che nella casa di mio fratello non c'era un « rifugio » e anche perché si diceva che i fascisti si servivano di cani per scovare i partigiani.

Pensai allora di mettermi in campagna e lavorare ai lavori di potatura. in corso: quello dopo tutto era il mio lavoro, sapevo di non essere ricercato come Giuseppe Tanferri ma solo come « Paride » (mio nome di battaglia) e siccome questo sistema aveva funzionato altre volte, pensai che avrei corso meno rischi che se avessi tentato di nascondermi; d'altra parte armi non ce n'erano in giro. La cosa che mi tradì fu invece il fatto che, contrariamente ai precedenti, quel rastrellamento veniva eseguito con una tecnica diversa che consisteva nel rastrellare indistintamente tutta la popolazione maschile che poi veniva portata in un posto prestabilito; qui veniva fatta una cernita dei rastrellati in base a precise indicazioni fornite da uomini mascherati, transfughi dal movimento partigiano, i quali conoscevano bene quelli che in qualche modo avevano avuto rapporti con il movimento clandestino. Fu così che una fila di 300 o 400 uomini venne fatta sfilare davanti a un tavolo al quale erano seduti due « mascherati » (subito individuati, peraltro) che indicavano ai rastrellatori gli elementi che dovevano essere fermati, mentre tutti gli altri venivano lasciati liberi. Io venni appunto indicato come « Paride » (così ero conosciuto), proprio quel « Paride » che in tutta la zona figurava come firmatario di centinaia di ricevute regolarmente rilasciate dalle formazioni partigiane allorché effettuavano prelevamenti di generi alimentari e vari, e che venivano poi presentate dai conferenti a giustificazione della mancanza di questo o di quello. Si sapeva dunque che «Paride » era il responsabile della « Sussistenza partigiana » e quindi... Quando poi più tardi all'Accademia io continuavo ad insistere che non ero quel « Paride » gli stessi della « maschera » (ma allora senza questa) vennero a testimoniare che invece ero proprio io quello!

Da S. Giovanni di Concordia, dove avvenne 'il concentramento' dei rastrellati riconosciuti, ci portarono nella prigione della Caserma dei Carabinieri di Novi dove rimanemmo fino al mattino seguente, quando vennero a prenderci e, previa una nutrita scarica di botte inferte con la tecnica degli schiaffi a mano aperta sugli orecchi in modo da colpire i timpani e scuotere tutta la testa, ci portarono a Modena nelle celle, allestite nell'Accademia. Qui cominciarono gli « interrogatori »

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I cosiddetti « interrogatori » erano diretti personalmente, anche se non sempre, dal colonnello Petti coadiuvato dal capitano Nespoli ed eseguiti attraverso l'impiego di una squadra di uomini alla quale i prigionieri rinchiusi nell'Accademia avevano dato non a caso il nome di « squadra dei massacratori », composta da elementi non modenesi: toscani per lo più e altri, tranne il verbalizzatore, un tale Carpigiani di Mirandola.

Petti dirigeva gli interrogatori (che, come si vedrà, erano vere e proprie sedute di tortura) con la pistola sempre a portata di mano nella fondina e urlava irritato quando qualcuno dei suoi picchiava il prigioniero sulla faccia perchè si lasciavano così dei segni troppo evidenti, oppure perchè il torturato sveniva troppo presto: una volta mentre ero stato messo sulla « giostra » (poi dirò di che cosa si trattava!) ricevetti un colpo di bastone che mi ruppe il setto nasale, e lui allora a gridare che non voleva segni sulla faccia.

Questo tipo di interrogatorio per me è durato una settimana.

Il primo giorno mentre ero in coda con altri detenuti (alcuni anche di Concordia) in attesa di entrare in un'ampia stanza attrezzata allo scopo, vidi un prigioniero portato di peso per le braccia e le gambe, completamente nudo, coperto di sangue: sembrava morto e io non ho mai saputo la sua fine n'è chi fosse; vidi però che gli aguzzini fascisti uscendo dalla sala della tortura attraversavano il corridoio dove noi eravamo in attesa, e lo portavano in una stanza di fronte dove (come ho poi saputo per mia esperienza personale) venne immerso in una vasca di acqua gelida. A me questo è successo alcune volte, e ciò succedeva spesso quando uno perdeva i sensi.

Quella prima volta, quando vedemmo il prigioniero portato fuori a forza e che sembrava morto, un giovane partigiano di Concordia a quella vista, cadde a terra svenuto.

Se uno sostava nel corridoio, poteva udire provenire dall'interno della sala rumori e urla indescrivibili: la famigerata squadra dei « massacratori » era in piena attività!

Quando sono entrato la prima volta nella stanza c'erano ad attendermi cinque o sei individui che hanno incominciato ad insultarmi e a deridermi mentre mi facevano spogliare completamente.

A questo punto è bene valutare questa perfida (anche se non fisicamente dolorosa) tecnica del « denudamento » completo, per gli effetti psicologici distruttivi che essa provoca: in quella situazione sconcertante ed umiliante, quando un uomo si trova nudo fra uomini vestiti, quello si sente subito come distrutto: c'è un senso abbastanza naturale di pudore oltraggiato, una sensazione deprimente di inferiorità di fronte agli altri. Non è tanto il capire che sei personalmente minacciato, sapere cosa ti aspetta fra un momento, quanto invece sentirti così nudo come un verme in mezzo a un gruppo di criminali che si preparano a fare di te uno strumento su cui sfogare la rabbia più bestiale e sanguinaria.

Era infatti con il mettere violentemente le mani sui genitali e sulle parti molli del corpo che gli aguzzini incominciavano, fra risa di scherno e di sadismo che accoglievano le trovate più « intelligenti » dei compari.

Iniziava quindi il trattamento vero e proprio: mentre due uomini ti tenevano stretto per le braccia dal di dietro, altri si alternavano con poderose scariche di pugni sul ventre e sullo stomaco (ho già detto che Petti non voleva che si picchiasse sul viso) fino a farti crollare. Poi ti rialzano - la rivedo ancora adesso come allora quella scena! - e quando non riesci più a reggerti ti appendono a un gancio con la faccia rivolta al muro, le mani legate assieme con una catenella. Qui, con un arnese che non so ben definire perché mi hanno sempre colpito da tergo, comincia la battitura sulla schiena, dalla cintola alle spalle: le battiture sono violentissime, feroci e si ripetono per giorni e giorni fino a ridurre la schiena una massa di carne tormentata, prima sanguinolenta poi maciullata e infine - se ti lasciano qualche giorno senza farti l'« interrogatorio » - piena di croste e pus Mai acqua per lavarsi, nessuna disinfezione, solo la vasca quando venivano a meno i sensi: le prime cure le ho ricevute infatti in una infermeria improvvisata nella Prefettura di Mantova il giorno della liberazione di quella città.

Un amico ora scomparso, un certo Gavioli di Castelvetro ma concordiese di origine, togliendomi una volta in cella una maglietta pur con tutta la cura possibile dovette staccarmi da molte parti del costato e del dorso brandelli di carne in putrefazione, tanto che con le dite potevo sentire in certi punti le ossa quasi messe a nudo, e avvertire il fetore nauseabondo che emanavo.

E come me, altre decine di patrioti erano nelle stesse condizioni alla Accademia! 

In queste condizioni evidentemente le sistematiche battiture sulla schiena, dopo che questa era così ridotta, perdevano efficacia: coloro che avevano subito da giorni questo trattamento cadevano infatti ben presto, dopo qualche fustigata, in uno stato di incoscienza cosicchè l'interrogatorio non poteva più dare alcun risultato, non si poteva più sperare che la sofferenza inumana strappasse qualche nome, qualche notizia: al di là della consapevole resistenza di tanti torturati decisi a non parlare (ma chi non ricorda con commozione i compagni che si suicidarono temendo di non poter resistere alla tortura?) si veniva a creare per gli aguzzini fascisti una vera e propria impossibilità

« tecnica » di procedere oltre con questo tipo di tormento. Iniziava allora una nuova tortura che poteva invece continuare per giorni e giorni poiché con questo sistema si evitava di rendere insensibile una parte del corpo mentre invece si aveva bisogno di colpire parti, sempre sensibili: questo nuovo metodo consisteva nella battitura sulle piante dei piedi, e siccome questa si può effettuare solo mantenendo il corpo umano in una posizione difficile, allora si ricorreva alla famigerata « giostra » alla quale ho già accennato: una definizione « giocosa » inventata con sadica fantasia dai nostri aguzzini per indicare un dolorosissimo strumento di tortura. 

La « giostra » era così fatta: si legavano le mani del prigioniero con una catena o una corda, mentre le braccia unite alle estremità venivano aperte sulle ginocchia unite e con le gambe rientrate verticalmente, fino ad infilare fra le gambe e le braccia una sbarra di ferro.

La sbarra veniva, sollevata e appoggiata su due cavalletti cosicché il prigioniero (sempre completamente nudo) veniva a trovarsi con i piedi aperti e protesi in aria in modo che non si potessero muovere.

In questa posizione venivano inferte le battiture (anche qui non so dire se con un bastone o con qualche altro mezzo): il cuoio dei piedi si gonfiava, diventava nero, ma non si rompeva, perciò il dolore era sempre vivo ad ogni battitura.

Mentre ero in questa posizione una volta mi misero in corrispondenza delle natiche qualcosa di infuocato - non so bene che cosa - che mi provocò una bruciatura che guarì dopo molto tempo: mi accorgo che spesso dico « non so, non ricordo »; ma dovete considerare che il clima in cui si svolgevano queste mostruosità era di tale terrore da procurare in chi le subiva uno stato costante di choc e di terrore allucinante che non consentiva di vedere e forse neanche di sentire e percepire con precisione tutte le cose.

Ricordo che una volta mentre ero sulla giostra uno colpendomi sul naso, credo con un bastone, contro le disposizioni del buon Petti, me lo fracassò: per la posizione rovesciata della testa il sangue mi soffocava e in quella condizione venne uno, mi aperse di forza la bocca, si raschio in gola e mi sputo dentro!

Alfine dello stordimento, il corpo veniva anche fatto ruotare attorno alla barra di ferro.

Quando ero appeso per le braccia, la schiena veniva ridotta come ho detto, mentre la catenella per mezzo della quale ero « impiccato » penetrava nelle carni dei polsi, ledendo nervi e tendini (e infatti i due pollici mi sono rimasti semi paralizzati per anni e dapprima addirittura del tutto inerti). Ci sono ancora nel viso e nella schiena i segni cicatrizzati di queste torture che ho subito.

Il giovane dottore che a Mantova, dov'ero stato trasferito, mi lavò le ferite per la prima volta il giorno della liberazione chiamò la gente a vedere in quali condizioni ero ridotto e proruppe in questa esclamazione: « avevo sentito dire che i fascisti torturavano i partigiani, ma fino a questo punto non l'avrei mai immaginato ».

Non potevo infatti stare in piedi a causa delle piante dei piedi divenute di un gonfiore enorme, non potevo stare coricato né supino né bocconi perché ero tutto rovinato: potevo riposarmi solo sui gomiti e sulle ginocchia, e per poco sui fianchi, in una stanza fredda, sul nudo pavimento, con le mani legate ai piedi, dietro la schiena: questo durante tutta una settimana di così detto « inerrogatorio ».

Durante l'interrogatorio uno dei più accaniti aguzzini al servizio dei massacratori era un certo Scaldrino, un ex partigiano che aveva tradito, il quale mi strapazzava tirandomi per i capelli perché diceva che gli sporcavo i muri, e i pavimenti di sangue.

Questo individuo, caduto poi nelle mani dei partigiani nei primi giorni dopo la liberazione, venne da me visitato in prigione e quando gli chiesi perchè si era accanito con tanta bestialità contro di me, contro un partigiano che lui neanche conosceva, si mise a piangere, al che non ebbi neanche la forza di attendere risposta.

(Ho voluto ricordare questo episodio per dare anche la misura di che cosa miserabile, di quali stracci umani e di, quali strumenti di oppressione dei compagni potevano venire ridotti uomini caduti in quella rete infernale e che non fossero stati capaci di resistere non tanto sul piano fisico quanto sopratutto su quello morale, aggrappandosi alla disperata alla propria fede).

Per dare un'idea del clima della prigione basti dire che lo stesso cappellano del carcere, Don Piombino, veniva a fare la predica a quei giovanissimi in preda alla disperazione al terrore e allo sconforto più drammatico (non dimentichiamo che da quel carcere venivano prelevati continuamente prigionieri come vittime delle rappresaglie), predica che suonava press'a poco così: « . . . è inutile lamentarsi, la colpa è vostra se siete qui, se voi aveste fatto il vostro dovere da bravi italiani . . . ». E' inutile sottolineare che queste parole in quel momento mi portavano a formulare giudizi di estrema condanna verso quel miserabile « sacerdote », tanto più che nello stesso tempo nella mia cella, a dormire sul pavimento con la testa appoggiata sul mio stomaco, c'era un altro sacerdote brutalmente picchiato e insultato dai fascisti alla presenza di tutti i prigionieri nel cortile dell'Accademia, don Melegari della Parrocchia di San Possidonio, ora morto.

Vorrei anche sottolineare come il famigerato UP (Ufficio Politico) che faceva tremare tutta Modena fosse in realtà un servile strumento nelle mani dei tedeschi, e per questo valga un episodio: un giorno che stavano picchiandomi mentre ero impiccato per i polsi al solito gancio entrò un ufficiale tedesco. In quel momento stavo attraversando un momento assai critico; infatti la catenella mi entrava nei polsi, mi colava sangue giù per le braccia, lo stomaco me lo avevano ridotto un polpettone, i nervi mi sembrava che si rompessero, e per il grande rilassamento dovuto alla stanchezza gli alluci avevano finito, per toccare con la punta estrema, per terra. L'ufficiale tedesco mi osserva, vede gli estremi sfiorare il pavimento, allunga un piede e con la punta dello stivale toglie questa specie di contatto almeno per un momento riposante poi si congratula

- « Gut! » - con la squadra dei torturatori fascisti e se ne va compiaciuto del buon lavoro che i servitori avevano svolto.

Ho cercato di dire qualche cosa sulla triste e allucinante mia esperienza di galera fascista.

E' però molto difficile rendere davvero l'idea di drammi di questo genere. E' molto difficile esprimere sensazioni, reazioni: far capire ad esempio come reagiva lo spirito di un uomo comune alle sofferenze fisiche, quale poteva essere per lui il terrore della sofferenza fisica, un terrore che veniva ripetuto ed esasperato, come abbiamo visto, fino a farti sentire questa sofferenza ogni momento, anche quando non la stavi materialmente subendo.

Posso dire però questo: che tutto questo ad un certo punto fiacca lo spirito, e un uomo allora diventa

« una cosa », ma cosa dolorante e mal ridotta al punto da perdere il senso del suo valore e della sua importanza.

E' questo il momento più tragico e più pericoloso, perché allora può darsi che la causa per la quale uno subisce tanto male perda di valore, e subentri la volontà di non sentire più, di non soffrire più.

A questo punto vengono quasi meno anche i riflessi per quanto attiene la sofferenza fisica: sembra quasi che si interrompa il rapporto fra organi colpiti e organi di registrazione di ciò che il colpire provoca.

Un giorno, alla antivigilia della liberazione di Modena, passa davanti a me un gruppo di fascisti in divisa - gente che non avevo mai visto - e uno dice con gli altri indicandomi a dito: « Vedete? quello li è quello che prende tutte quelle botte: qualcuno ha detto che con tutto quello sarebbe morto un bue ». 

* * * 

E' la prima volta che scrivo di queste cose, e il farlo mi costa ancora molta fatica (cercate di capire perché!). Lo faccio perché è utile che quanto ho visto e sofferto rimanga scritto; perché il vero volto del fascismo, se ve ne fosse bisogno, sia ben chiaro per tutti. 

Giuseppe Tanferri « Paride »